In Iran non è un buon momento per il mining di Bitcoin. Se il governo di Teheran ha puntato con forza sugli asset digitali con il preciso intento di attenuare gli effetti dell’embargo statunitense, nel corso delle ultime settimane è iniziata una vera e propria offensiva contro le aziende minerarie che si sono stabilite nel Paese. A seguito della quale sono stati chiusi ben 1600 siti minerari. Una politica la quale sembra agli antipodi rispetto alle teorizzazioni che puntavano a fare del Paese una sorta di hub del mining. E che erano in parte riuscite nell’intento, considerato come la sua parte meridionale, ove esistono zone esenti dal pagamento dell’elettricità consumata allo scopo, abbia attratto in particolare imprenditori cinesi.

Cosa sta accadendo in Iran?

Mining FarmLa decisione che ha colpito 1600 mining farm può essere considerata la conseguenza di una vera e propria crisi energetica che ha colpito il Paese. Teheran e altre grandi città dell’Iran sono infatti sprofondate nell’oscurità nel corso delle ultime settimane a causa di continue interruzioni le quali hanno privato milioni di persone dell’elettricità, per ore. Un evento tale da spingere le autorità a cercare un colpevole, presto individuato nel Bitcoin. In particolare negli impianti dove il token viene minato, con un consumo pari a circa 450 megawatt giornalieri. Un provvedimento il quale, però, è stato presto indicato come ingiusto dagli ambienti crittografici iraniani.

Qual è la verità sulle tariffe elettriche per il mining?

Secondo molti osservatori, il prezzo di circa 4 centesimi per chilowattora applicato all’energia elettrica, rappresenterebbe un livello molto basso. In grado quindi di incentivare il mining di criptovalute all’interno del Paese.
Una tesi la quale, però, non è assolutamente condivisa dai miners di Bitcoin. A partire da Mohammad Reza Sharafi, il leader della Cryptocurrency Farms Association locale. Secondo il quale non solo i costi in questione non sono sostenibili dai minatori, ma scoraggerebbero gli investimenti. Indicando a dimostrazione delle sue tesi il fatto che delle oltre mille licenze per il mining concesse dalle autorità, appena una ventina si sono tramutate nell’impianto di siti produttivi lungo il territorio nazionale. Gli altri operatori avrebbero rinunciato scoraggiati dal fatto che le tariffe in questione sarebbero ben cinque volte più alte di quelle riservate ad acciaierie ed altre attività energivore.

La tesi di Kaveh Madani

Dr._Kaveh_MadaniSulla questione delle tariffe elettriche è intervenuto anche Kaveh Madani, ex vice direttore del Dipartimento dell’Ambiente iraniano. Affermando che BTC sarebbe un facile bersaglio per una narrazione la quale non tiene in conto l’effettiva realtà. Che, secondo lui, sarebbe da ravvisare in decenni di cattiva gestione delle risorse elettriche, le quali sono infine sfociate nel crescente divario tra domanda e offerta di energia in Iran.
A sostegno della sua tesi, Madani ha anche portato un dato preciso, quello rilasciato dal Ministero delle telecomunicazioni. Secondo il quale appena il 2% del consumo di energia elettrica nel Paese sarebbe da ricondurre al mining di Bitcoin. Troppo poco per poter realmente pensare che sia la regina delle criptovalute il vero problema della crisi in atto.